Analisi sull’evoluzione del grande lievitato, con intervista a Giovanni Mineo di Crosta.
In una logica di festa ‘tutta italiana’, l’avvento dei primi freddi post-estivi trasporta subito la mente al Natale. Sfociando simultaneamente in tavola con il prodotto simbolo della gastronomia natalizia: il panettone. Un moto stagionale di appetiti glicemici a catena. Veritiero ormai solo in parte, perché nell’ultima decade questo iconico dolce delle festività ha subito una serie inverosimile di evoluzioni e sprint mediatici. Che l’hanno portato non solo ad esser consumato sempre più durante il corso di tutto l’anno (in barba alle mezze stagioni), ma ad esser anche oggetto di ricerca, sperimentazioni creative, stravolgimenti e modifiche strutturali da parte di grandi maestri pasticceri e panificatori (italiani e non solo). Ne sono passati di canditi, burro e tuorli, sotto i non-alveoli di quell’originale ‘Pan de Toni’: che secondo leggenda meneghina è da ricondurre alla Milano del XV secolo. Un pane arricchito di frutta candita, uvetta, uova e zucchero, nato per rimediare un errore durante il banchetto di Vigilia degli Sforza. Da quell’ibrido non lievitato, si è approdati negli anni ’20 alla versione istituzionale carica di burro, dalla forma elevata a cupola, di Angelo Motta che lo rese celebre su scala industriale. E poi ancora, in ottica moderna: versioni salate; all’olio extravergine; con glasse sperimentali; con grani antichi; farce alternative e prototipi ideati da grandi Chef. Una sfilza incontenibile - a tratti eccessiva - di rivisitazioni sul tema, che porta oggi a chiederci: quale può essere un futuro coerente di questo leggendario dolce natalizio?
Ne abbiamo parlato con Giovanni Mineo, del Panificio & Pizzeria con Cucina ‘CROSTA’ di Milano. Uno dei locali più fervidi e attivi della new age italiana di panificatori e pizzaioli etici. Che si è ritagliato subito un posto di merito, conseguendo premi e riconoscimenti in sequenza, grazie proprio al lavoro sinergico di Giovanni (ex Davide Longoni, Panificio Italiano e componente del collettivo Panificatori Agricoli Urbani) e Simone Lombardi (pizzaiolo con esperienze da Simone Padoan dei Tigli, dallo chef stellato Alfio Ghezzi e dal celebre DRY di Milano). Tornando al panettone, Mineo sta brevettando una sua versione inedita e insolita per il prossimo Natale. In contrasto identitario con l’evoluzione che ha subito questo prodotto negli ultimi anni. La sua è una sfida, dettata da sensibilità e piglio umanistico, che vuole riportare il panettone a un gusto autentico. Cercando di valorizzare materie prime agricole e smarcando ogni agente chimico che possa assecondare una visione stereotipata e industriale di questo grande lievitato.
QUALE E’ LA TUA IDEA DI PANETTONE E DA COSA NASCE?
“Tutto parte dal mio modo di fare pane, che trova applicazione anche nella mia pasticceria. Parte dalla filosofia che guida il nostro lavoro da Crosta e che ho appreso dal mio maestro Davide Longoni. Non rivendico nulla di esclusivo, perché ci sono tante persone, grandi artigiani e panificatori che condividono con me questa metrica lavorativa. Io faccio pane partendo dal rispetto della terra e dell’agricoltura. Avere coscienza dei campi, dove si lavora il grano e dei mugnai che lo vanno a morire è un aspetto cruciale del mio approccio. In un momento di grande esposizione mediatica e a tratti confusionaria rivolta alla produzione di grano, non voglio fossilizzarmi sulla macinazione a pietra o a cilindro. La differenza passa per la purezza del grano. Un grano che sia autoctono, sano e pulito. Non un grano pensato chimicamente per fare un prodotto. Sottolineo questo perché, ahimè, l’industria moderna ha sempre intaccato la manifattura di farinacei per facilitare e velocizzare le lavorazioni in pasticceria e nella panificazione. Anche il panettone ne è in parte una vittima. In passato era un prodotto ben diverso. Basso, compatto, con una struttura più chiusa e un gusto più genuino. Meno accattivante esteticamente, ma se vogliamo scavare in profondità, anche non alterato da farine tecniche che ne condizionano lo sviluppo e inevitabilmente il gusto. Grazie alla sperimentazione della pasticceria - soprattutto dagli anni 70 in poi - si è costruito l’immaginario del panettone su un filone industriale di progresso e benessere apparente. L’attenzione per l’agricoltura, artigianato e salubrità è passata in secondo piano. Si aveva più premura per l’estetica e per il risultato. Meno per il contenuto agricolo e materico dei prodotti. Forse questa è l’unica critica che al giorno d’oggi mantengo per la pasticceria creativa. In cui si cerca assiduamente una struttura che colpisca, rischiando di venir meno a contenuto e sapore. La pasticceria che cerco io è distante anni luce da tutto ciò. Prediligo forme imperfette e meno appariscenti, ma che preservino un gusto reale. Fedele alla bontà degli ingredienti che seleziono con cura da contadini e artigiani. Così, il mio panettone è un ritorno sentito alla verità agricola e materica di questo lievitato. Fronteggiando il terrore di molti pasticceri che inseguono l’immaginario comune di un panettone alto, slanciato, arioso e super alveolato. Per arrivare a questi risultati, purtroppo, si affidano spesso a mulini che compongono farine pensate appositamente per arrivare a quel prototipo di struttura. Farine addizionate con miglioratori, enzimi e agenti chimici che servono a facilitare la lievitazione, con un così alto carico di parti grasse e di canditi. In questo momento, in cui siamo bombardati di panettoni di ogni entità colori e tipologie, io sono portato a cercare altro. Perché tutto ciò rischia di diventare qualcosa di grottesco. Preferisco andare a rintracciare il buono rivolto all’agricoltura e alla filiera controllata. Dinnanzi all’estetica forzata, preferisco fare un passo indietro verso creazioni semplici e misurate sul valore dell’uomo. Sul campo, sul contadino e su chi mi fornisce le materie prime”
UN PANETTONE AGRICOLO DUNQUE. COME SARA’?
“Per non distaccarmi eccessivamente dall’idea di panettone, anche io ho dovuto studiare molto per trovare un compromesso logico. Non volevo stravolgere l’essenza di questo dolce, ma ripartire dalle basi. Dunque dalla purezza di farine non manipolate chimicamente. Per reggere la ricchezza di burro, canditi e tuorli però, anche una farina non trattata aveva necessita di essere asciugata. Ovvero non di fresca molitura. Per questo io ho bisogno di farmi confezionare una che venga lasciata maturare, a discrezione dei miei mugnai. Affinché perda umidità e sviluppi una forza di glutine adeguata per fare questo tipo di prodotto. Mi sono confrontato con il mulino del progetto piemontese ViVa, che mi confeziona una farina sartoriale, estratta dai lotti di grano più forti e performanti del loro raccolto. Lotti di grano tenero con un grado di forza e spinta glutinica maggiore, selezionati in maniera certosina e che non vengono però assolutamente manipolati o stabilizzati. Sono passato poi alla ricerca di un burro non trattato per la pasticceria, ovvero non privato delle componenti oleiche e liquide che disturbano la produzione di sfoglie e lievitati. Ma in Italia, per retaggio culturale, è ancora difficile trovare burri con un buon bilanciamento di grassi che non siano soltanto derivati dalla lavorazione del latte per i formaggi. Ho scelto dunque un burro francese (Elle&Vire), dalle note nette e vellutate. Ma sono ancora aperto a trovare alternative più territoriali. Per le uova, di cui uso solo tuorli, ho consolidato il rapporto con una fattoria biologica piemontese (Alessandro Varesio), che mi fornisce solo uova da allevamento a terra e a ciclo chiuso. Altra parziale incognita sono i canditi, spesso soggetti a sbianchitura, correzioni di glucosio e trattamenti chimici a base di solforosa. Io mi sono innamorato di una antica produzione artigianale di canditi ad opera di una realtà genovese che risale al ‘900 (Romanengo). Cedro e arancia a dir poco commoventi per morso e qualità, ma non smetto mai di sperimentare e cercare anche qui alternative che non facciano lievitare troppo il prezzo del mio panettone. Un altro criterio che mi sento di portare in primo piano, come fattore di rispetto per la mia clientela. Per l’uvetta, vorrei inserire una varietà italiana che mantenga chicco e una texture croccante e carnosa, ma non sono ancora soddisfatto pienamente di quelle testate fin’ora. Non aggiungerò poi nessuna pasta di arancia, vaniglia o aromi, proprio per valorizzare l’integrità delle materie prime. Per prender posizione contro la metrica industriale degli aromi sintetici ‘gusto panettone’ che hanno per anni invaso la produzione di grandi lievitati nel mondo della GDO e non solo.
A livello di lavorazione, seguo i passaggi classici di un doppio impasto con tre rinfreschi. Perché il mio lievito madre vira molto sulla parte acida, utilizzandolo prevalentemente per panificare. Prima del primo rinfresco, faccio un bagno al lievito, poi nei due successivi li faccio maturare in acqua per abbassare l’acidità. Questo porta il mio lievito a essere molto attivo. L’acidità inoltre, in percentuale controllata, è un miglioratore naturale del glutine. Rafforza le catene glutiniche, senza ricorrere a miglioratori addizionati. Non userò mai la glassa perché voglio preservare il sapore puro dell’impasto. E non voglio neanche cedere a quello che in parte è uno stratagemma che in cottura va ad aiutare lo sviluppo del prodotto grazie alla camera di vapore che si crea in superficie. Un challenging costante, che lascia intendere quanto il mio panettone sia ancora in costruzione. Le prime sfornate hanno messo subito in chiaro che non avrà lo sviluppo in altezza e l’alveolo a cui siamo abituati, ma al palato era autentico, morbido, rincuorante. Fioccava al tatto e non tradiva la personalità festosa di questo dolce. Ho un’idea ben precisa di dove voglio arrivare, ma non è facile. Quindi andrò a rifinirlo piano piano nel corso del tempo. Il segreto della bellezza risiede nell’imperfezione. Il mio panettone agricolo vuole essere un punto di riflessione e di partenza. Per me in prima persona. Per riappropriarmi del valore umano nella panificazione e nella pasticceria. Del valore di diversità, anche nel cibo vivo e quotidiano, che è una componente fondamentale del lavoro di chi panifica e crea alimenti per il prossimo. Soprattutto a Natale”